Alcune domande a Eugenio Corti, a proposito de “Il cavallo rosso”

Ad un personaggio che si rivela così prepotentemente al pubblico (il suo Il cavallo rosso, edito dalla Ares di Milano, conta 1.277 pagine) in modo frontale e con un romanzo di fluviale impianto storico, è anzitutto necessario chiedere qualche antecedente biografico e letterario?
Eccole, tutto d’un fiato, l’elenco delle mie opere: I più non ritornano (diario della ritirata di Russia); I poveri cristi (ambientato nella guerra del nostro esercito contro i tedeschi in Italia, alla quale ho pure partecipato di perso­na); Processo e morte di Stalin (tragedia, rappresentata a Roma dalla compagnia di Diego Fabbri); L’isola del paradi­so (sceneggiato televisivo, inedito). Ci sono poi due raccol­te di articoli e saggi: Il comunismo realizzato e L’epoca di Paolo VI (questa relativa alla crisi postconciliare del mondo cattolico) infine è uscito nel 1981 un volumetto di racconti S. Giorgio declassato e altri racconti. Il mio libro più fortunato è stato, il primo, I più non ritornano, con ot­to edizioni Garzanti dal 1947 al 1973, di cui una tascabile a grande tiratura; se n’è interessato anche Benedetto Croce. Il processo a Stalin è stato tradotto e pubblicato prima in lingua russa, poi in lingua polacca, ovviamente non da persone del “sistema”, bensì del dissenso. Quanto allo sceneggiato inedito — da me inviato a diversi produt­tori — ha avuto la singolare avventura d’essere abusiva­mente realizzato in film, ma con la tesi rovesciata, da un gruppo di spregiudicati laicisti-porno; per fortuna il film “a rovescio” non ha avuto successo.

Eccoci allora a Il cavallo rosso, un’impresa. Abbiamo ascendenti riconoscibili, in Italia o fuori?
L’invito a scrivere un libro di guerra (di guerra in Russia poi…) e di pace, ci viene da Tolstoj. Non saprei indicarle invece degli ispiratori del mio modo di scrivere, del mio stile (l’artista che sento a me più vicino quanto al modo d’espressione non è uno scrittore ma un pittore: Masaccio). Di fatto — al contrario di un mio personaggio, l’ex pittore russo Làricev (e allo stesso modo invece di quell’altro personaggio, lo scrittore Michele Tintori) — io non avverto molto il bisogno dell’incontro con gli altri au­tori, dello scambio con loro. Per me vale sopra ogni cosa il monito del vecchio Catone: “Rem tene, verba sequentur”. Quanto al modo, allo stile con cui le parole seguiranno, credo che uno debba esercitarsi, fino a rendere il più pos­sibile lo stile che gli è connaturato, che ha già dentro in sé. Poiché siamo in tale discorso vorrei, anziché dell’ascendenza, riferirle un caso di discendenza da una delle mie opere. Precisamente da I poveri cristi, lavoro che uscito nel ‘51, al tempo in cui era sommo sacerdote delle lettere Vittorini, non poteva avere, e infatti non ha avuto, fortuna. Credo però che abbia per più aspetti determinato — nientemeno — Il gattopardo di Tommasi di Lampedusa (in questo era d’accordo anche l’indimenticabile Mario Apollonio). Mentre leggevo quell’opera io facevo salti sul­la sedia imbattendomi in tanti punti d’incontro con la mia; alla fine il vecchio gentiluomo scrittore m’ha lasciato — così credo — una sorta d’attestazione con l’introdurre nel suo romanzo i cognomi non siciliani (Corti e Moroni) dei due principali personaggi de I poveri cristi.

E quanto alla pubblicazione, com’è avvenuto che la Ares di Milano, sia stata propensa alla stampa?
Le dirò che i cosiddetti “grandi” editori davanti a un manoscritto voluminoso come quello de Il cavallo rosso hanno dimostrato una “prudenza” che li induceva a pren­der tempo: ai costi industriali infatti il romanzo avrebbe dovuto avere un prezzo di copertina superiore alla cinquan­tamila lire, ed era comprensibile una certa perplessità di natura commerciale, ottimo paravento anche per censure editoriali di tipo ideologico. L’amico Cavalleri, entusiasta del libro, mi ha aiutato a rompere gli indugi, giungendo al­la pubblicazione in tempi brevi e in un regime di costi con­tenuti, sopportabili da un piccolo editore, così da spuntare un prezzo di copertina più che accessibile (ventiquattro mi­la lire). Ma il motivo principale per cui sono felice di aver pubblicato con l’Ares è il prestigio di questa casa editrice, molto apprezzata per il rigore delle sue scelte in campo teo­logico, filosofico e saggistico, anche se non specializzata nella narrativa. Mi auguro che il mio romanzo dischiuda ora nuovi orizzonti all’editore e agli autori che, come me, possono soffrire discriminazioni ideologiche.

Si è reso conto di non aver praticato risvolti sperimentali e di averci dato un romanzo, un triplice romanzo, a tutto tondo?, diremmo quasi naturalistico, alla fine del 20° secolo?
Naturalistico? Non so se lei allude a G. E. Moore, oppure in genere agli idealisti (padri di tutte le ideologie vigenti) che reputano “fallacia naturalistica” il far dipen­dere i giudizi di valore da quelli di fatto. Ad essi io op­pongo il realismo cristiano, a cominciare da quelle parole del Vangelo: “li riconoscerete dai loro frutti”.

Romanzo storico, d’impianto collaudato, comunque, ma con “estensioni” secondo quanto disse di lei Mario Apol­lonio (“autore di romanzo, poema, dramma, storico”). E i lettori, come reagiranno secondo lei?
Dai lettori mi attendo che fra quanti sotto sotto non condividono le concezioni della cultura illuministica oggi dominante, anzi stra dominante (in particolare fra i cristia­ni), ce ne siano che accolgono con gioia la mia nuova ope­ra, nella quale le loro concezioni più autentiche sono pre­sentate non già in modo subalterno, ma al contrario poste alte sul monte. Spero inoltre che qualcuno cominci a in­travedere finalmente la possibilità d’uscire dalla lisa pro­vincialità in cui la cultura illuministica d’importazione (or­mai fallimentare dovunque — pensi a ciò che ne dice Te­stori) costringe l’Italia. Certo, quanto al numero dei letto­ri — almeno iniziale — non mi faccio illusioni: la falange degli “intellettuali integrati” di Gramsci (marxisti e non marxisti) è tuttora troppo saldamente attestata nei gangli dei nostri mezzi d’informazione.

Autobiografia, realismo, oggettività, moralità, passaggio generazionale: la sua poetica, o estetica se vogliamo, agisce su questi cardini. Ne abbiamo tralasciato qualcuno?
Il rovesciamento della cronaca in storia, il peccato originale (le cui conseguenze si fanno sentire quasi in ogni cosa), la tragicità della condizione umana partecipe del di­vino e insieme dell’animalesco, infine il lirismo consolato­re (ch’è una sorta di minimo specchio, nell’ordine natura­le, dell’azione dello Spirito Santo).

(Claudio Toscani, gennaio 1984, Il ragguaglio librario)